2 recensioni : albino pierro
 

 

   
     
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Il Quotidiano della Basilicata Giovedí 3 Aprile 2003
 
TURSI - "Messer in der Sonne", suona così in tedesco "Curtelle a lu sòue", titolo di un'opera del 1973 di Albino Pierro, ed oggi scelto da Domenico Brancale e Tobias Eisermann, insieme all'editore Clemens-Tobias Lange, per un libretto che raccoglie trentanove poesie pierriane per la prima volta tradotte in tedesco.
Il testo, edito in mille copie, raccoglie alcune tra le più significative liriche di Pierro. "A jaramme", "Le porte scritte nfàcce", "Nun ci pozze accustè". tante per citarne alcune, ed ogni poesia è accompagnata da un segno o meglio una traccia che sostanzia un suono, un’idea, un’immagine.
Oltre al testo in tedesco e a quello in dialetto tursitano a fronte, non manca una sezione che raccoglie le traduzioni in italiano, ed alcune testimonianze di Tobias Eisermann e di Domenico Brancale, che a propcsito di Pierro scrive: «quando leggo la poesia di Pierro una sensazione di verità s’impossessa della tana silenziosa del mio cuore, una lama di luce attraversa la scorza della mia resistenza…»
Ed è lo stesso Brancale a spigare la genesi di quest’opera: «ho conosciuto alcuni anni fa Tobias Eisermann per caso, forse per volontà della poesia stessa, o per destino, come se in un certo qual modo il libro stesso chiamasse e facesse in modo di farci incontrare. Eisermann aveva sentito parlare di Pierro e letto le sue poesie, ma non aveva potuto leggerlo attraverso il dialetto, cosa che pote fare con il mio aiuto e da allora è nata la nostra collaborazione. Il tedesco, poi, è una lingua che Pierro conosceva ed amava, ma è l’unica lingua in

 

cui non era ancora stato tradotto, perciò questo lavoro, assume un significato molto importante anche aila luce dei tanti studi che sono stati condotti ad opera di Heinric Lausberg. Gerbard Rohles, eoc.
Questo libro è nato cosi, in un itinerario continuo sulle tracce di Pierro e l’unica persona che poteva materialmente fare questo libro è l’editore, Tobias Lange, vici no alla terra della poesia, alle cose, alla «carne»~.
Lange, pittore ed editore aggiunge: «ho approfittato della presenza di Brancale e di Eiserman per visitare ~ tanti posti qui in Lucania e ne ho ricevuto una forte impressione: la luce è forte, le ornbre sono nette, le persone sono chiare, si esprimono in una maniera onesta, || diretta, pulita».
Del testo ve ne è poi un edizione speciale, stampata in pochissimi esemplari, davvero particolare: stampata sulla carta del pane a voler i significare il suo alto valore nell'avvolgere un alimento tanto prezioso e quindi anche le parole della poesia e la vita stessa. Al suo interno, e poi, impreziosito da numerose tavole ove prendono forma originali disegni di Tobias Lange. Un testo che e si ammanta di una connotazione anche tattile, da accarezzare, consumare e far viaggiare con sé.

Teresa Crispino
   
 
Il CUBO
Contenitore mensile di informazioni Universitarie
Febbraio 2003
 
Tursi, la Musa cordiale

di Neil Novello

Albino Pierro, Curtelle a lu sóue / Messer in der Sonne, CTL, Hamburg 2003
La poesia di Albino Pierro impone l'immagine della memoria come forma o strategia del desiderio. Ma il desiderio inalveato negli strati del tempo (il tempo della storia e il tempo del mito), è una maniera d’essere del pensiero. La storia entro la quale il pensiero coglie i fiori del ricordo è per la precisione la «propria» storia. Ecco il primo vero dato di questa miracolosa sezione di vita che è
Curtelle a 1u sóue. La vita preesiste (e coesiste) alla poesia come l'eco di una voce urlata nel vacuo di una vallata di Tursi, e in tale condizione si rinviene il dato conseguente all’autobiografia, il principio del piacere «da» autobiografia. Ovvero il mestiere di ricordar-si (di ricordare sé).
D’altra parte, pare essere un’attitudine del poeta quella di ricrearsi (ritagliarsi) nella storia del ricordo una frazione dolceamara di sé, quasi che la distanza del tempo, allo stesso momento desideri «ricordare» solo per attualizzarsi nel tempo. La filigrana «memoriale» dei
Curtelle di Pierro consiste nella determinazione puntuale, nella fissazione geometrica, di vaghi e sparsi luoghi della vita raccolti in un miracoloso bacino d’eventi. Anzi, a richiamarsi da Pierro è il «fatto» qual è l’esemplare fisionomia dell’Evento. Non solo di vita vissuta, ma di vita orientata ad essere tale per la presenza di un’altra «vita», quella del poeta, seduto al centro o solo su di un margine per osservarla tornare a sé in forma di detriti raccolti ai suoi piedi. Pierro gravita senza controllo psicologico sul territorio umano e linguistico della stagione tursltana.
I1 segreto di questa poesia consiste non già nell’allargarsi (nella lingua e nella vita), ma nel raccogliersi, nell’adunare la parte di sé accostandola alla parte più intima del proprio mondo. Dall’estremità del confine (il poeta siede idealmente altrove), l’oscillazione tra periferia e centro, tra presente e passato, è per Pierro un luogo d’osservazione (nel pensiero) e la maniera per inserirsi, nel «ricreando» naturale del pensiero, entro il solco dell’autobiografia, dell’io raccontante sé. I1 problema non è l’«esserci» del poeta nel mondo ma – altrimenti – solo l’«esserci stato». L’immagine della voce poetante giunge da un pulpito al limite del postesistenziale: un tempo esaurito nella storia torna a vibrare nel presente, tuttavia ora è reliquia di un trapassato sogno.
Al presente, la memoria «rivede» il tempo per integrare il tempo. Da qui procede il doppio movimento di questa poesia verso le età della vita, i luoghi e gli eventi, le stagioni dell’esperienza. Da una parte, la memoria cattura un tassello di tempo e lo fissa in un’immagine da dagherrotipo. È l’immagine che (ri-) forgia la «storia» del poeta.
Dall’altra tarda a fissarne l’identità alimentando il piacere della durata visiva o mentale, quasi che il gusto di Pierro voglia del tutto coincidere con la natura imprendibile delle cose del mondo. È l'immagine che forgia la «cultura» del poeta tursitano. Su questa via, la poesia di Pierro viene a sbilanciare e mettere a soqquadro il tempo (dell’educazione sentimentale) e il tempo generale dell’amore umano. Se la storia obbliga a definire il tempo secondo il corso naturale degli eventi (l’educazione «sentimentale» alla storia), la cultura del poeta dichiara la maniera pre-naturale dell’educazione alla

storia. È l’amore umano che preesiste all’educazione sentimentale, che configura una specie d'inimicizia, che è intrusione nei nodi nevralgici della vita del poeta. Dell’amore umano come «condizione umana» di Pierro, e del contenuto reale, un segno tangibile è Addie/Addio: «Tu mó ca l’ha avute ’a pacienza di mi legge, / purtatille appresse cchi ssempe / sta voce, / come si pòrtete u mbrelle quanne chiòvete, / o come ll’occhie ca vìrene u sóue, / si u core ti dòute. // Nda tutte sti paróne, e nun su' picche,/nun c'è manche n'arie di viléne; / na vita sèna sèna agghie luttète / cchi'i dìcete nganne a la morte, a schitte mò si gràpene i porte / e addù c'èrete u scure mo c’éte u sirene». «Tu ora che hai avuto la pazienza di leggermi, / portala sempre con te / questa voce, / come si porta l'ombrello quando piove,/o come l'occhio che vede il sole, / se il cuore ti duole. // In tutte queste parole, e non son poche, / non c'è nemmeno l'ombra del veleno; / e solo adesso s'aprono le porte, / e dov’era il buio c'è ora il sereno».
È nell’idea della poesia come dono, come cosa da donare, che la pulsione originaria della poetica di Pierro stigmatizza l'idea di parola poetica come sola eredità per il mondo. L'immagine più naturale consiste nel principio morale dell'offerta del proprio amore. Né la fede né la speranza sembra siano i termini religiosi (etici o poetico-religiosi) della donazione, ma la rarissima esigenza della carità. Ecco allora che l'atto di pescare nel tempo non è per lasciare «qualcosa» nel tempo ma è per donare una «cosa» allo svolgersi del tempo.
Ciò spiega che l'amore umano è raro quanto la carità per amore umano: così com'è fuggevole. E pertanto Curtelle di Pierro è da annoverarsi tra le esperienze poetiche del limite. Del limite d'esistenza della «poesia>> nella poesia, della «vita» nella vita. Così come accade al poeta confuso in un sogno di benefica calamità quando talvolta appare nel ricordo il sé fanciullo. Lungo i gradi della propria storia come lungo i gradi, le stanze del proprio essere, la dialettica tra l'ora e l’allora è la messa in felicità della vita. Così leggiamo I cose citte: «Sti cose citte, / stu chiante ca s'ammoccete, / mó ca i'è notte,/mi dìcene ca tòrnete / u uagnunelle ca i'ére: / nun c'éte 'a rise com'a tanne / ma ié le sacce scunfunnète / e vive com'a mmi/nda nn'atu grire cchiù granne.// Po’lle sente ca tutte dui / ci iòchene com'a frète/nda chilla vocicella amère e duce/di nu flauticchie di canne». Le cose silenziose: «Queste cose silenziose, / questo pianto che si nasconde, / adesso che è notte, / mi dicono che ritorna / il bambino che ero: // non c'è riso come allora / ma io lo so remoto/e vivo come me / in un altro grido più grande. / Poi li sento tutti e due / che giocano come fratelli/in quella vocettina amara e dolce / di un flauto di canna».
Non è difficile annettere alle ragioni della felicità, non proprio il limite di una tendenza, quanto il modo d’anelare naturale di Pierro, sempre in coesistenza amorosa con i frammenti, ora sparsi ora raccolti, della sua vita in poesia.
   
 
   
   
   
   
   
   
   
 
   
   
   
   
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